sabato 31 luglio 2010

La Cultura del Rispetto


L'Associazione "Anche noi per Alassio" ha protestato nei confronti dell'Amministrazione Comunale Alassina per la concessione, nello spazio antistante il Monumento ai Caduti, di suolo pubblico per spettacoli viaggianti, burattinai e assimilati.
Tale spazio è stato recentemente dedicato ai Caduti di tutte le Missioni di Pace Italiane all'estero.
Pur essendo in antitesi riguardo a certe prese di posizione del sodalizio menzionato (per esempio certe critiche all'Assessore alla Cultura Monica Zioni), questa volta non possiamo che essere dalla parte di chi difende la Cultura del Rispetto.
Esistono decine di altri siti dove collocare marionette e burattini: tali spettacoli devono avere la funzione di arricchire l'offerta ludica e turistica di Alassio, e NON di approfittare delle concessioni in posizioni strategiche centrali per dare beneficio solo alle tasche degli organizzatori.
Le manifestazioni ludiche e turistiche devono essere al servizio della città e NON viceversa.
Nel passato abbiamo più volte protestato anche noi per l'indegno utilizzo di uno dei luoghi più sacri della comunità alassina.
Alla ricerca dei responsabili ci siamo trovati davanti un muro di gomma.
Alcune settimane fa un incauto campeggiatore decise di passare la notte davanti al Sacrario dei Caduti situato nel centro della vicina città di Albenga.
Il vice Sindaco in persona, ricevuta la segnalazione, alle luci dell'alba provvise a far sgomberare il malcapitato dall'area sacra agli albenganesi.
Qualcuno prenda atto della sensibilità e tempestività degli Amministratori Ingauni (stesso orientamento politico degli Amministratori Alassini...) e si ravveda sull'inerzia fin qui dimostrata.
E magari si ripensi anche alla concessione a quell'altro trabiccolo (seggiolini elastici) che occupa uno degli spazi più ambiti degli adiacenti Giardini Comunali, sito dove è stato eretta una lapide dedicata ai Donatori di Sangue alassini, spazio totalmente sottratto alla fruizione degli anziani - alassini e turisti - che abitualmente lo utilizzavano in estate per goderne della frescura donata dai maestosi alberi circostanti.
Anche per questa attrazione ci sono in Alassio decine di siti adeguati dove può essere una risorsa e non, così come è adesso, un vero "vulnus" dei nostri splendidi giardini pubblici.
La Cultura del Rispetto deve essere al primo posto nella costruzione di una vera comunità.

martedì 20 luglio 2010

IL NOSTRO MANIFESTO

È uscito in questi giorni il nuovo libro di Marcello Veneziani “Amor fati” (Mondadori, pagg. 242, euro 18) di cui riportiamo un capitolo sui legami che vincolano una vera comunità. Al centro del denso saggio filosofico c’è il concetto di destino che «radica l’essere nel divenire, dà senso all’accadere, connette l’esistenza a un disegno e a una persistenza».
Siamo orientati ad adottarlo come manifesto culturale di FORZA ALASSIO.



SPAESATI E INSICURI. CI MANCA LA VERA COMUNITA'.
Nell’epoca spaesata, la comunità esiste come residuo possente che dà sostegno alla vita reale, è presente come lutto e orfanità ma anche come aspirazione comune. La famiglia, il gruppo, la città, l’associazione, la rete, la patria, l’ecclesia, benché in crisi, sono gli unici contesti in cui si esprime la vita, senza dei quali non avrebbe senso né sostegno la persona. Si è persona in relazione all’altro, perché persona – lo dice il suo stesso etimo – esige qualcuno che ci osservi. Siamo persone rispetto a qualcuno. Persona indica un carattere, una modalità specifica di presentarsi, perfino una maschera, che ha senso solo in rapporto col mondo; altrimenti non si è persone, ma solo individui. La persona esige relazione e la vita esige legame sociale. L’io prende corpo e misura rispetto a un tu, si qualifica e si definisce rispetto a un tu, e dentro un noi. E tuttavia, l’orizzonte comunitario sembra retrocedere al passato, sfumare nelle superstiti isole dell’ideologia, fino a diventare la proiezione onirica di solitudini a disagio. La famiglia è vissuta come luogo di evacuazione e tempo di smobilitazione, le associazioni sopravvivono se diventano occasionali e laterali luoghi di socializzazione o di rappresentanza degli interessi singoli; le città e le nazioni si riducono a sfondi paesaggistici, display o location; le religioni sono ricacciate nel privato come sette recintate, separate dal vivere civile e comune.
Una vera comunità non può essere sconfinata, universale, coincidente con l’umanità, perché la comunità delimita un noi e lo distingue dal resto; ma non può essere neanche il suo rovescio, una setta, una tribù, un circuito chiuso. Se è comunità esige sia una separazione sia un’apertura, è sempre un essere-con ma a viso scoperto, a cielo aperto. La comunità ha un territorio, delinea un confine e può avere anche un suo cuore segreto, ma non ha cinte murarie entro cui barricarsi. La comunità designa un’appartenenza, ma non preclude alla differenza. Altrimenti è una fortezza che si reputa assediata, non è un luogo di primaria esperienza del mondo ma una cittadella di reclusi, ostile al mondo. Comunità è comunicare. Si può essere congrega di asceti e ordine di cavalieri, ma non si può essere comunità civica chiusa all’esterno. La comunità è delimitata ma aperta. Se non subisce assedi, non può murarsi dentro.
La comunità non esclude al suo interno la solitudine, come l’essere in società non scongiura l’isolamento. Essenziale è la distinzione tra solitudine e isolamento, come ben distinse Hannah Arendt. La solitudine può essere un’indole, un’esigenza, una scelta, una conquista, perfino una beatitudine (Beata solitudo, sola beatitudo); l’isolamento è invece una perdita del mondo e una sconfitta, un impoverimento e un’emarginazione, un’inadeguatezza, una condanna e una sofferenza. L’isolamento non è la solitudine involontaria di cui scriveva Hume, perché non è sempre né solo inflitta dalla società. È una solitudine sgraziata, a volte subita a volte interiore, cioè covata nel proprio seno, irriducibile all’emarginazione e all’ingiustizia sociale. In una comunità è possibile la solitudine ma non l’isolamento, perché isolarsi presuppone la fuoruscita, la perdita, l’esclusione dalla comunità. In una società si può essere soli ma anche isolati; in una comunità invece si può essere soli ma non isolati, perché se si è veramente isolati si è già fuori dalla comunità. In una società è possibile distinguere una sfera pubblica e una sfera privata, anzi la società sorge su quella distinzione; una società malata non distingue, non tutela o addirittura inverte i rispettivi spazi che attengono alla vita pubblica e privata.
In una comunità, invece, l’orizzonte privato tende a collimare con l’orizzonte pubblico, o quantomeno ad armonizzarsi e a riconoscere uno spazio comune in cui confluiscono e interagiscono il pubblico e il privato.
Prodotto tipico e contagioso dell’isolamento è l’insicurezza, che tende a espandersi. Le società prive di destino e di comunità pullulano di singoli isolati, sono abitate da milioni di eremiti – diceva Montale – che vivono il loro isolamento in piena folla. L’isolamento produce paura, genera domanda di sicurezza. Si tratta di domande di origine metafisica e psicologica, prima che sociale e militare, che investono il senso e l’identità, l’incertezza dell’esistenza in un orizzonte labile e l’incedere del vuoto e del nulla; ma il gigantesco, capillare sradicamento di ogni domanda in rapporto al destino costringe a dirottare le domande d’insicurezze sul controllo delle risposte e a circoscriverle nell’ambito della pubblica sicurezza. Accade allora che l’insicurezza si riduca a incolumità, la metafisica a ordine pubblico e l’incertezza della vita in rapporto al destino si trasfiguri, fingendo di assumere concretezza, in paura sociale dello straniero, del criminale, del pedofilo, in generale del disordine e dell’anomia. In un percorso inverso e paradossale rispetto alla critica alla religione degli illuministi e poi di Feuerbach, accade che si proietti in terra un bisogno di cielo, e si invochi il vigilante in luogo dell’angelo custode, si installi una ronda o una postazione di pubblica sicurezza laddove manca un’edicola sacra e protettiva; si risponda con l’ordine poliziesco a una domanda di ordine esistenziale e si prometta tutela dei singoli da ogni prossimità inquietante mentre la domanda da cui sorgeva l’insicurezza era incentrata sul bisogno di comunità. Non è l’estraneo che spaventa, ma è il venir meno di quel che è nostrano a disorientare.
Le comunità soffrono meno di queste paure rispetto alle società spaesate perché sono rassicuranti, familiari e calde; l’insicurezza si accompagna all’isolamento. L’assenza degli dei, del fato e della comunità viene compensata con il raddoppio della vigilanza. La perdita d’identità è risarcita con l’aumento dei controlli.
L’estensione della società al pianeta, lo sconfinamento del locale nel mondiale e la rete globale di relazioni telematiche rendono sempre più evanescente l’appartenenza stessa a una società. Più la società si estende e più perde ogni traccia di contorno, fino a realizzare l’idea popperiana che la società sia solo un’astrazione platonica e che esistano soltanto gli individui con le loro dirette e occasionali relazioni. Se la società è un concetto astratto, il mondo non è fondato sui legami ma è regolato da leggi e contratti, le consonanze si fanno solo sincronie, perché sono fondate soltanto sul temporaneo convergere di interessi e apprensioni; le relazioni non prevedono comunanza ma tecnologia. È la tecnica a rapportarci al mondo; le comunanze al più consentono di stabilire rapporti sentimentali nell’ambito dell’affettività privata.
A uno sguardo più attento, potrebbe perfino modificarsi la considerazione da cui siamo partiti circa il tramonto della comunità; a tramontare sembra essere piuttosto la società che cede il passo a una frammentazione di meteoriti individuali o tribù microsociali e di solitudini globali, mentre la comunità resiste almeno in tre ambiti: come nostalgia del passato, come prospettiva del futuro e come sentimento intenso nel presente. La comunità abita in interiore homine, come vuoto e come attesa, ma anche come percezione di legami elettivi e naturali che sentiamo come fondativi della nostra vita e del suo senso. Per questo, la comunità oggi acquista vigore proprio nella solitudine, come invocazione, memoria e pre-sentimento. Viceversa diventano pericolose, quanto artificiose, le pseudocomunità che sorgono dall’isolamento perché sono agglomerati ringhiosi di risentimenti ed emarginazioni che armano le frustrazioni fino a renderle militanti. Tanto sono aggressive le pseudocomunità di clan, di club o di quartiere quanto sono fittizie e interiormente vuote. Possono attenere tanto a un villaggio quanto a un branco o a un collettivo. Reti effimere, occasionali, hobbystiche, orgiastiche, emozionali, virali... La comunità sorge da un’esigenza naturale che si costituisce in orizzonte culturale. Entrambi la radicano nel tempo e nello spazio. Il nesso tra natura e cultura è l’orlo del destino.
Marcello Veneziani